Commedia alquanto insolita nel panorama del teatro di Eduardo De Filippo. La grande magia è uno dei testi meno conosciuti e rappresentati del grande drammaturgo partenopeo: la sua complessa concettualità, il tono “filosofico” della narrazione, il gioco dialettico che permea la vicenda la rendono meno immediatamente godibile degli altri grandi successi dello stesso periodo. Scritta nel 1949, La grande magia riaccese all’epoca della sua prima rappresentazione il dibattito sull’influsso del teatro di Pirandello su Eduardo, in quanto l’opera è incentrata sulla tematica dell’illusione, del contrasto fra la realtà oggettiva e la fantasia soggettiva, ma è anche, nel contempo, un’accorata vicenda umana, nella quale, a fronte della dinamica degli interessi meschini e dell’arte di arrangiarsi che caratterizza alcuni personaggi, spicca il dramma genuinamente umano di Calogero, che preferisce aggrapparsi all’illusione pur di non ammettere l’infedeltà della moglie e sceglie, infine, di vivere per sempre nella sua personalissima fede in quella moglie ideale da lui sempre sognata.
“Questo ho voluto dire – spiega lo stesso Eduardo – che la vita è un gioco e questo gioco ha bisogno di essere sorretto dall’illusione, la quale a sua volta deve essere alimentata dalla fede. Ed ho voluto dire che ogni destino è legato al filo di altri destini in un gioco eterno: un gioco del quale non ci è dato di scorgere se non particolari irrilevanti”. Ed allora è vero che “l’illusionista” Otto Marvuglia evoca il ricordo del pirandelliano mago Cotrone dei Giganti della montagna, ma è anche evidente che, col suo tono ciarlatanesco ed il suo agire un po’ gaglioffo per necessità di sopravvivenza, ricorda anche “Sik Sik e artefice magico” del più genuino teatro eduardiano.
Il pirandellismo di questa commedia è, perciò, più apparente che reale e la distanza che l’autore sembra voler prendere dal suo “cliché” comico-malinconico è anch’essa solo di facciata, perché gli umori della vena drammaturgica del grande Eduardo, in fondo, ci sono tutti e c’è, soprattutto, una vicenda di umana, dignitosa sofferenza che non può non colpire profondamente al cuore.