“Il contratto” (1867) appartiene ad un periodo della vita artistica di Eduardo contrassegnato dallo scoraggiamento e dall’amarezza per una condizione dell’uomo e della società che non lascia intravedere valori morali elevati e positivi. Sviluppando un tema che aveva affrontato già venticinque anni prima con “Io, l’erede”, l’autore vuole evidenziare l’incapacità degli uomini di coltivare il vero amore a causa della loro sfrenata bramosia del denaro, della loro avidità di possedere sempre di più. L’amore per il denaro, nella cupa e pessimistica visione di Eduardo, è diventato nella società contemporanea il sostituto del genuino amore verso il prossimo che dovrebbe contraddistinguere i rapporti umani. Anche in questo caso l’autore vuole perciò smascherare – e lo fa con feroce ironia – la bassezza in cui è caduto il genere umano ed escogita addirittura un “contratto morale” per costringere gli uomini ad amarsi, in cambio della promessa di “resuscitare a nuova vita” grazie alla “catena d’amore” di cui ciascuno dovrebbe essere circondato nell’ambito della famiglia. E il “messaggio” che Eduardo vuol far passare è che, per un’umanità dominata dalla cupidigia e dall’ipocrisia, incapace di amare il prossimo, l’immortalità è costituita dal denaro: come sottolineato dalla critica, sotto la favola scenica di Eduardo ritroviamo, in fondo, la favola della vita italiana, di una società in cui il denaro è il solo mezzo per restituire a nuova vita un uomo. Geronta Sebezio, il protagonista, si rivela dunque il profeta ed il grande sacerdote del materialismo, l’amministratore di una specie di giustizia distributrice che toglie a coloro che hanno troppo per dare a coloro che sono stati privati di tutto (in una sorta di ritorsione contro la società e contro lo stesso Stato, che di essa è espressione), l’artefice impietoso di una denuncia rancorosa e vendicativa in cui non è l’interesse in sé ad emergere, ma soprattutto la condanna moralistica e la dissacrazione della nuova religione del denaro che caratterizza il nostro tempo. E non è un caso, perciò, che la commedia si chiude con un rituale pseudo sacro che ricorda allusivamente l’offerta al vitello d’oro degli Ebrei.