Raffale Viviani, artista eclettico mollo amato dalle platee ma osteggiato in vita dalle istituzioni per le sue impietose denunce sociali, resta oggi un uomo di spettacolo di elevatissimo livello, purtroppo non adeguatamenle noto al grande pubblico. Nelle sue opere (commedie, poesie, brani di varietà, canzoni) esprime una visione essenzialmente tragica delle vicende umane, suggerendo, dietro il brio del mestiere comico, l’amara fissità del destino, i risvolti grotteschi di estenuanti lotte quotidiane contro le insidie di una sorte sempre avversa. La sua non è la Napoli di Eduardo, non è cioè un “luogo mentale”, una collocazione geografica di temi ed ideali universali, ma è la Napoli vera e verace, coi suoi bassi, i suoi vicoli, la sua fame, le sue feroci astuzie per la sopravvivenza; è una Napoli profonda, secentesca, abitata dai lazzari, dalla plebe sopravvissuta attraverso i secoli a epidemie devastanti e a rivolte velleitarie, abbandonata nelle sue abiezioni dalle istituzioni e dai ceti colti della città. Definita “commedia d’ambiente” dallo stesso autore, nel testo da lui dattiloscritto, “Morte di Carnevale ” (1928) è ricca di tutti gli umori vivianeschi e, dietro la vicenda corale e popolaresca che rappresenta, propone simbologie coerenti con la visione artistica della vita di Napoli propria dell’autore: la critica ha visto in Carnevale, il vecchio e feroce usuraio del titolo, il simbolo della maledizione di questa città, condannata a vivere alla mercè di chi la sfrutta e la opprime senza pietà. Perciò Carnevale, arche se tutte le sue vittime ne attendono la morte, non può morire, come non muore l’oppressione sociale cui è sottoposta – nella visione di Viviani – la plebe napoletana. Nel contesto di tale simbologia, il basso ed il vicolo, al di là di una solidarietà umana solo apparente che li anima e del colore e folklore partenopeo da cui sono caratterizzati, rappresentano una sorta di gabbia di belve, dove gli impulsi dominanti sono la fame e l’avidità del denaro, che è l’unico mezzo per affrancarsi da quella fame. C’è una sorta di amara predestinazione incarnata nella figura di Rafele, il nipote di Carnevale, che, nella struttura circolare del testo, impreca alla propria “sfortuna” con le stesse parole all’inizio ed alla fine della commedia. E si tratta di un circolo chiuso nel quale Viviani propone come via di uscita la dignità del lavoro, unica indicazione propositiva dell’autore in una vicenda che vede nel destino un avversario invincibile, una forza ostile, in una rassegnazione dai tratti irreversibili.